domenica 18 gennaio 2015

Mio Nonno

Mio Nonno si chiamava Vincenzo e non era un chiacchierone. Lo chiamavamo Nonno Censo, e viveva in una cascina all'inizio della Valle con la Nonna Rosetta e il Nonno Nô, che si chiamava Giovanni ma tutti lo chiamavano così, ed in realtà era il mio bisnonno.
Noi piemontesi non siamo gente espansiva. Il Nonno Censo parlava poco, e il Nonno Nô ancora meno. Ma avevano tutto quello che poteva fare felice un bambino che viveva in un condominio negli anni '70: tanto spazio, due cani, un bue, agnelli, galline, conigli. Con mia sorella e le mie cugine, passavamo sempre la domenica dai Nonni con le nostre famiglie.
Vicino alla casa c'era l'orto, il campo e in fondo al campo il fosso. Per un bambino un fosso è il massimo: dovevi stare attento a non finirci dentro, come ripeteva la Mamma di continuo, e dovevi provare a saltare dall'altra parte, cercando di non finirci dentro e di non farti vedere dalla Mamma.
Dopo il fosso c'era la vigna, una collina che ci sembrava altissima, e dopo la vigna il bosco.
Il bosco era quel posto in cui il Papà e il Nonno andavano la mattina presto, con i cani e i fucili, e tornavano con lepri e fagiani.
Nel bosco non si poteva andare, perché eravamo troppo piccoli. Il bosco per me era il mistero e l'avventura, era la curiosità e la scoperta del mondo. Pensavo sempre che un giorno sarei stato abbastanza grande per partire, saltare il fosso, salire la vigna e avventurarmi nel bosco.
La cascina del Nonno era divisa a metà dal portico: da un lato c'era la casa, e dall'altro c'era il laboratorio e la stalla.
Nel laboratorio c'era una morsa enorme, e tanti attrezzi. Io non ci potevo andare, perché la Mamma diceva che mi potevo fare male, ma riuscivo sempre ad infilarmici e prendere il mio martello preferito e spaccare i pezzi di carbone che servivano per la stufa. La morsa poi mi attirava irresistibilmente: c'era un perno e se lo giravi la morsa si apriva e si chiudeva, e questa è una cosa normale per una morsa, ma per un bambino degli anni '70 era come la playstation. Una volta girai tanto che la morsa si sganciò da un lato e rischiò di cadere. La presi al volo, e rimasi lì con una mano che spingeva la morsa senza sapere cosa fare. Non riuscivo a rimetterla a posto, e se la avessi lasciata andare sarebbe caduta a terra e il Nonno se ne sarebbe accorto.
Dopo un po' entrò il Nonno e io mi sentii gelare il sangue: mi aveva beccato e non riuscivo neppure a parlare. Diede un colpo alla morsa che si riagganciò, e mi disse “Và.” Io scappai via, pensando che ora lo avrebbe detto alla Mamma, e il Papà mi avrebbe sgridato e non sarei mai più uscito di casa. Invece il Nonno non disse nulla.
Il Nonno aveva fatto il fabbro tutta la vita, prima di finire a fare l'operaio in un cementificio per cercare di avere una pensione. Aveva mani enormi e dure in fondo a braccia muscolose, e mi sembrava fosse l'uomo più forte del mondo. Alle volte caricava noi bambini su una specie di carriola e ci portava in giro mentre noi pensavamo che nessuno altro al mondo era forte come il Nonno che aveva tanta forza da riuscire a sollevare una carriola con quattro bambini dentro.
Vicino a casa c'erano la forgia e l'incudine. Il Nonno prendeva un pezzo di ferro e a furia di calore e martellate lo faceva diventare un ferro da cavallo, o da bue. Qualche volta mi permetteva di stare a vedere, e se facevo il bravo potevo girare il mantice che soffiando creava al centro della brace un calore enorme che bruciava la faccia a guardarlo. Il Nonno ci metteva il ferro fino a che non diventava rosso e poi lo batteva sull'incudine con ritmo, fino a quando non si raffreddava e allora lo rimetteva nella forgia. Quando il ferro era finito, lo scaldava un ultima volta prima di immergerlo brevemente in un secchio d'acqua, e questa ultima operazione si chiamava “tempra”.
Poi arrivava il bue, e il Nonno con una catena lo agganciava ad un anello di ferro che era nel muro, per tenerlo fermo. Prendeva una zampa del bue e se la metteva sulle ginocchia, la puliva bene, poi ci piazzava il ferro e lo inchiodava. Ci sembrava impossibile che si potesse mettere un chiodo sulla zampa di un animale, e correvamo a chiedere alla Mamma se gli faceva male, e lei ci rispondeva che lo zoccolo è duro e il bue non sente mica niente. Noi pensavamo di essere molto fortunati ad avere le scarpe e non dover avere i ferri e i chiodi piantati nei piedi.
A pranzo la domenica mangiavamo quasi sempre tagliatelle con la lepre e la Nonna ci diceva di stare attenti ai pallini. Noi bambini se ne trovavamo uno gridavamo di gioia, come se avessimo vinto alla lotteria, lo facevamo vedere a tutti e poi ce lo mettevamo in tasca come se fosse stato una moneta d'oro.
Il Nonno aveva fatto la guerra: era stato uno dei tanti mandati al fronte russo, ed uno dei pochi che era riuscito a tornare. Ci dicevano che era tornato a piedi dalla Russia, d'inverno, inseguito dai cosacchi. E' morto di polmonite a 68 anni, in un letto d'ospedale, durante uno sciopero dei medici.

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